Chiamasi
in Sicilia
« íornu
di li morti »
, o semplicemente
«
li
morti »
, il 2 di novembre,
in cui la Chiesa con pia cerimonia fa solenne commemorazione dei defunti.
In quei giorni molti Palermitani vanno a visitare le Catacombe dei Cappuccini
fuori Porta Nuova, dove per antica usanza gli scheletri dei morti,
ravvolti in panni neri, pendono attaccati alle pareti o stanno in nicchie
esposti agli occhi dei visitatori, tra i quali i superstiti congiunti mandano
ogni anno per questo giorno candele di cera da accendersi innanzi a questo
o a quel parente. Or delle anime dei
trapassati parenti la facile credenza del volgo ha fatto per i fanciulli
dei geni benefici. Nella notte dal 1 al 2 novembre i morti lasciano la
loro paurosa dimora, e in frotta o alla spicciolata scendono in città
a rubare ai più ricchi pasticcieri, mercanti, sarti ecc., dolci,
giocattoli, vestiti nuovi e quanto altro è in essi morti, l’intenzione
di donare ai fanciulli loro parenti, che siano stati buoni nell'anno, che
li abbiano devotamente pregati, che abbiano fatto per essi qualche astinenza:
è un furto innocente, che vuota il borsello del babbo, della mamma,
del nonno, e impigua quello dei fieranti, dei venditori cioè di
cosiffatti ninnoli, radunati in una fiera improvvisata ora in un posto
ora in un altro, ma per lo più in un sito popoloso della città.
Non è improbabile che questa fiera un tempo si tenesse nel pubblico
mercato che da noi si chiama Vucciria, perché
dai fanciulli si chiede che i morti per quella sera se ne stiano tutti
alla Vuccíria; ed una frase proverbiale consacrata per la
ricorrenza dei Morti dice: « Sapiri
la Vucciria »,che significa
sapere che li cosi di morti (nome complessivo dei regali che si fanno ai
bambini) non son donate già dalle anime dei trapassati, ma bensì
dai vivi: e quindi conoscere questo grazioso inganno, e per traslato, essere
accorto, scaltro e malizioso. E da qui nasce che nessuno può pretendere
alle «
cosi di morti»
che
conosca la via della Vucciria, e se la conosce bisogna che faccia
le viste di non conoscerla se vuol esser trattato con doni e con strenne.
Quando si avvicina
la festa, i bambini cercano di chi dovrà andare alla
Vucciria
a parlare ai morti in favore loro; e se non
stan buoni, si minacciano che non si andrà alla Vuccíria,
non sarà fatta nessuna raccomandazione, non si parlerà ai
morti.
Chi ci crede piange
e s'attrista e promette di emendarsi; e chi no, con un certo sorriso malizioso
e con certi sguardi che nei fanciulli dicono molto, non se ne arreca gran
fatto. Per lo più promette di andare a parlare ai morti chi ha intenzione
o si presume di far dei regali; così si spiega il proverbio sulla
festa dei morti:
«
Si
nun vennu li morti, nun camminanu li vivi »
ovvero
«
Vennu
li morti pri camminari li vivi ».
*
(Dicesi pure: «
Dddopu
li morti caminanu li vivi » - PITRE',«
Proverbi
siciliani», vol. III, p. 68).
E’ già la
sera aspettata, e i bambini, i fanciulli non hanno requie; pure vanno a
letto ben presto tra timidi e speranzosi.
Le mammine fanno
recitar loro orazioni, preghiere od altre « cose di Dio »,
e non vi mancano i paternostri tanto efficaci perché i morti non
facciano orecchie da mercante. La preghiera fanciullesca è questa:
Armi
santi, armi santi,
Io
sugnu unu e vuatri síti tanti:
Mentri
sugnu 'ntra stu munnu di guai
Cosi
di morti mittitimìnni assai.
Intanto
i monelli vanno per le strade gridando in tuono lamentevole e prolungato:«
Li
morti vennu e ti grattanu li pedi! »
E qui vedresti i
fanciulli farsi piccini, rannicchiarsi per paura dei morti, paura che non
fa male, che non stuzzica neppure i vermini che le mamme siciliane sogliono
trovare in ogni grave malattia, in ogni lieve indisposizione dei loro bambini.
Palpiti trepidazioni,
speranze li agitano; ma pure tengono chiusi gli occhi per non dispiacere
ai morti o per non impaurirsi della loro vista. Finalmente poi viene il
sonno, e tutto s'immerge nel profondo silenzio della notte.
I morti escono dai
cimiteri ed entrano in città. Siccome in passato cimiteri erano
per lo più entro i conventi dei Cappuccini, così i morti
sogliono partire da quei conventi. In Cianciana però escono
dal Convento d S. Antonino dei Riformati, attraversano la piazza
e arrivano al Calvario quivi fatta una loro preghiera al Crocifisso, scendono
per la via del Carmelo. E’ nel passaggio appunto che lasciano i loro regali
ai fanciulli buoni. Nel viaggio seguono quest'ordine: vanno prima coloro
che morirono d morte naturale, poi i giustiziati, indi i disgraziati, cioè
i morti per disgrazia loro incolta, i morti di subito, cioè repentinamente,
e via di questo passo. In Casteltermini il viaggio è ogni
sette anni, e i morti lo fanno attorno al paese, lungo le vie che devono
percorrere le processioni solenni. In Vicari i morti portano in
processione dai Cappuccini ma non fanno nessun regalo; i regali li fa,
come innanzi dirò, la Vecchia di Natale. Rimessi di questo modo
a vita effimera i morti, appariscono essi vestiti? Ciò non saprei
affermare, essendo molto vago nella tradizione. Quel che si sa è
che in Acireale vestono di bianco, avvolti come quelli del Friuli,
nel funebre lenzuolo, e calzano scarpe di seta, forse per eludere la vigilanza
dei venditori ai quali andranno a rubare qualche cosa. In
Borgetto,
Partínico,
ecc. vanno avvolti nel solo lenzuolo a piedi nudi e con un grattugia di
sotto, portanti ciascuno un torchio resinoso acceso; procedono a due a
due recitando rosarii e litanie. In
Milazzo, col teschio pesante
che hanno sul debole collo, schiacciano la tenera cervice dei bambini hanno
tutti in mano una crocetta con la quale cavano gli occhi ai fanciulli indiscreti
e curiosi. In Catania passeggiano in processione per le strade recitando
il rosario. In altri comuni dell'Etnea camminano
« cu
lu coddu di filu », cioè
con un collo di filo, sottilissimo quanto un filo. Quindi girato per i
sestieri più popolati del paese, e giunti ove essi devono, si fanno
formiche per entrare nelle case dei loro congiunti, penetrano per le fessure
e non mai visti fanno il fatto loro. In che modo passino i loro doni non
sappiamo, ma è certo che li passano. Così nelle novelline
popolari i figli di re coi piede d'una formica da essi beneficata hanno
la potenza di convertirsi nella stessa formica e penetrare nei castelli
incantati a trovarvi la principessa fatata, cui essi lungamente cercarono.
In Salaparuta
i morti non sempre entrano nelle case, ma lasciano il dono alle porte e
alle finestre per lo più dentro le scarpe se i bambini appartengono
al basso popolo, in canestrini se sono del medio ceto. Durante il viaggio
dei morti le campane della parrocchia suonano tutta la notte a mortorio,
e le mamme e le nonne, nelle prime ore della sera, raccolti a voglia i
figli e i nipoti li trattengono raccontando loro le geste dei morti, e
facendo pregare per loro mentre sono già usciti dalle sepolture.
Nella stessa Salaparuta i fanciulli che vanno a visitare i morti
dei Cappuccini si provveggono di coccole raccolte ai cipressi del convento,
e con esse tutto il giorno giocano. In questa occasione spiccano in copia
bacche di cipresso e fronde di rosmarino e, come cose dedicate ai morti,
le portano in festa dentro le case loro.
In Monte Erice
i morti mangiano: fatto utile alla storia comparata degli usi funebri.
Partendosi dalla chiesa dei Cappuccini, a un terzo di miglio dalla montagna,
recano con loro tutto quanto è necessario a far « buoni morti
» ai bambini loro devoti.
Giunti alla Rocca
Chiana si fermano a prender riposo, sedendosi tutti in giro per rifocillarsi
con ciò che di meglio possano immaginare i fanciulli ericini, cioè
con pasta ben condita. Ripreso via per i sentieri più diserti, vanno
a lasciare i loro doni dentro le case dei bambini. Non ignorano tutto ciò
costoro, e la mattina pertempissimo scendono a brigate ai Cappuccini a
vedere i morti che sono stati così buoni per essi; ma nello scendere
vanno saltelloni per una scorciatoia, onde evitare Rocca Chiana,
temendo che qualche morto non sia ancor là a mangiare, gli avanzi
della lauta libagione.
Accadde una volta
in uno dei viaggi notturni dei morti un fatto che è tutto piacere
a sentire dalle donne etnee. Le quali raccontano che nei tempi antichi
un fanciullo orfano, desideroso d'incontrare in mezzo a quello stuolo di
morti il povero padre suo, uscisse solo di casa vagando pieno di ansia
e di paura. Ad ogni corpo che incontrasse era presto a domandare:
«
Veni
mè patri? » e l'altro
a rispondergli subito: « Apressu...
»
I morti eran tanti che il povero orfanello non ne poteva più, finché
già vicino ad abbandonarsi dell'animo, tra i pianti e i singhiozzi
trovatolo, e n'ebbe baci, carezze e dolci. Appunto da questa storiella
ripete la sua origine una frase proverbiale di Aci: «
Veni
mè patri? Appressu!,
»
che si suol dire quasi motteggiando allorché si attende persona
che non giunge mai.
Ma lasciamo codeste
particolarità e riprendiamo il filo dei nostri usi.
E’ già fatto
giorno e i bambini balzano dal letto impazienti di cercare dappertutto.
Le cose dei morti, vedi astuzia d'una madre! sono nascoste dove meno possono
sospettarsi, e perciò crescono nei bambini le ansie, incaloriscono
le premure. A certo punto essi trovano qualche cosa, e gridano: «
Ccà
su' »
!
E che trovano essi? una treccia d'agli, un mestolo rotto, un paio di ciabatte
sdrucite, un oggetto, insomma, ridicolo. Se se ne adontino non è
a domandare, falliti di punto in bianco i sogni dorati di tan fors'anche
di tutto un anno. Le scaltre mamme se ne rammaricano in apparenza, ma pure
« con tronche parole e mozzi accenti », con chi sa! con forse!
li eccitano a nuove ricerche: « Forse, dicono esse ai figli, i saran
fatti di coscienza, forse si saran guardati dal lasciar deluso un bambino
che li ha pregati con tanta devozione... » E qui ricomincino premurose
le ricerche; e mentre nuovi palpiti e nuovi timori ve turbare il tenerello
spirito, la madre con cert'aria di maliziosa sorpresa sollevando qualche
dubbio sulla sincerità della preghiera della sera « Forse
la non sarà stata fatta come doveva ... ; i morti se ne saran arrecati
... ; e che vuoi più doni e regali! » Né per questo
cessando da sossopra masserizie e vecchi arnesi il bambino va frugando
anche riposto angolo della casa: finché sul punto di abbandonare
disilluso la fruttuosa ricerca, eccolo saltar fuori tremante per una scoperta:
u guantiera di dolci, di frutta, di giocattoli, di abiti, premio all'aver
ignorata la Vucciria.
I dolci del basso
volgo sono per i Morti i pupi di cena: guerrieri a soldati, pedoni, signore,
trombe, scarpette di zucchero fuso comunemente appellato cena; questi pupi
qualche settimana prima della festa si vanno ríffando per la città,
uso molto antico, che, qualche volta, perché esteso anche ad altri
giuochi di fortuna, venne proibito. Le frutta sono infilzati a forma di
ruota, mele, noci, castagne, mortella, nocciole, avellane e in alcuni luoghi
anche fave. Tra gli abiti non può mancare un paio di stivaletti
o di scarpe, anzi nell'Etna i bambini la sera del 1 novembre sogliono preparare
in un angolo della casa un paio di ciabatte
«'apparanu
li scarpi », perchè
i morti nella prossima notte vi ripongano qualche cosa. Le ciabatte spariscono,
sostituite dalle scarpe nuove o da scarpine di zucchero; ma c’è
anche chi le trova ripiene di cenere o di qulche cosa non bella.
Abbiamo pertanto
i seguenti fatti, il 2 novembre giorno di strenne per i fanciulli; i morti
geni benefici per essi. Questi fatti son comuni a nove decimi di tutta
la Sicilia: a Palermo, Trapani, Messina,
Catania
*
(Tra gli Aneddoti siciliani del LONGO,
nel capitolo XIX, pagina 39, si parla di quest'uso in Catania),
Girgenti;
un decimo dell'isola conserva l'uso antichissimo delle strenne, riconoscendole
bensì da una vecchiaccia sdentata e mostruosa, che pure vuol bene
ai fanciulli; e mentre un paesello la vede in un giorno, una città
la vede in un altro: differenza non capricciosa certamente né casuale,
ma nata da circostanze che alla mitologia etnica importerebbe conoscere
per apprestare nuova luce alla storia più o meno intima di questi
usi. I giorni sacri alle
strenne son due: il 24 dicembre e il 1 gennaio. Un canto popolare di Siracusa,
che è una specie di calendario delle feste principali dell'anno,
ha questi versi:
Jinnàru
porta la festa lu primu
Comu
si leggi ogn'annu a calennàriu,
Lu
primu jornu chi agghiorna è la Strina,
E
ddoppu d'idda veni San Macariu.
E «
Strina
»
o « jornu di la Strina
»
in molti luoghi si rimanda il 1° dell'anno.
In Acireale
un tempo si gettava dai balconi «
lu
scàcciu »
(castagne,
noci, fichi secchi); e c'è il motto:
E
li vecchi stanu tisi,
E
li giuvini agghimmati;
E
la Strina mi la dati?
In
Avola
ed altri comuni del Siracusano, oltre ai consueti regali, se ne fanno per
questo giorno da fanciulli a fanciulli amici tra loro: e da tutti si ritiene
che chi riceve un dono dall'altro sia obbligato a ricambiare da canto suo
il donatore con altro regalo nel prossimo giorno della Epifania. In Ciminna
(provincia di Palermo) tra Termini Imerese e Ventimiglia,
dove víge ancora il costume generale dei morti, la sera del 24 dicembre,
giorno di strenne per il comune di
Favara nella provincia di Girgenti,
nella quale esse han luogo il 2 novembre come a Mezzojuso (colonia
albanese), esce « La
Vecchia di Natali », un fantoccio
di vecchia grinzosa, lacera, cui fanno seguito centinaia di monelli e di
giovani, altri sonando corni di bue, cerbottane e buccini di mare, altri
battendo campanacci, altri picchiando padelle, pentole e casseruole, ed
altri gridando a squarciagola:
« La
vecchia di Natali! La vecchia di Natali! »
grido
che tra il chiasso e gli schiamazzi si fa sentire in mezzo alla baraonda;
e col grido fischi da abisso infernale. Quella vecchia così in giro
condotta, così male rappresentata, è colei che la notte prossima
dovrà arricchire di ninnoli, di giocattoli, di cose mangerecce,
di vestiti i fanciulli. In Polizzi Generosa *(La
festa della veccbia si celebra in
Polizzi con tanta solennità
che da paesi più o meno vicini vi accorrono venditori a piantarvi
bazarri, ove specialmente abbondano panni, lane e sete d'ogni maniera,
chè i doni che per quella ricorrenza si fanno sono di molta e, per
alcuni, di grandissima spesa).
In Alimena
questa
vecchia comparisce la notte dell'ultimo dell'anno; in Corleone però
la notte dal 30 al 31 dicembre; in Cefalù procede sopra un
cavallo condotto a mano da uno della comitiva, e la non è se non
un giovine mascherato. Dall'Ave a mezzanotte in Ragusa Inferiorela
gente viene assordata dagli urli, fischi e rumori di una turba di ragazzi
che intende festeggiare la sira di li viecci campanari, Nella limitrofa
popolazione di Ragusa superiore non si ha codesto baccano;
questa popolazione, come si sa, è colonia di Catania.
La «
La
Vecchia di Natali » di Ciminna
prende il semplice nome di «
Vecchia
Strina »; in Corleone,
quello di
« Carcaveccbía
»,
altrove quello di Befana. E notisi che in Vicari una rappresentazione
propriamente detta non ha luogo, perché la vecchia non si fa, né
si conduce in giro; si crede invece che la notte della nascita del bambino,
Gesù ella esca fuori dall'antico castello (anche in Cefalù
la
«
Vecchia Strina
»
rimane un intero anno chiusa e nascosta entro il Castello), e scesa in
città a piedi si tiri dietro una funata di muli carichi di frutta,
dolci, vestiti, e passando per le vie si converta in formiche per lasciare
i suoi doni ai fanciulli. *
(Questi regali della vecchia Strina sono bellissimi, Carmine
Papa, poeta rustico di Cefalù, nelle sue Poesie siciliane
(Cefalù 1880) a pagina 29 dice che essendo egli malato un suo amico
gli........
Purtava
cosi di la vecchia Strina,
Lu
ciàuru lu faceva arricriari.
In
Corleone
essa scende dalle rocche in mezzo alle quali il comune si adagia e, dove
sotto forma di uccello, dove sott'altra forma, entra a riempire scarpe
ad altri arnesi stati apparecchiati dai fanciulli.
Ed ecco come e nomi
e circostanze giovano talora alla illustrazione delle cose popolari, e,
nel caso nostro, ad accostare un personaggio, lontanissimo in apparenza
da qualunque altro, a quello che gran parte d'Italia, di Francia, di Germania
ecc. riconosce per autore delle strenne di capodanno. La «
Vecchia
Strina » richiama almeno
col nome dell’antichissima Strenna dei Romani; mentre la Vecchia Befana
è una stessa cosa con la Befana del popolo italiano, che in Venezia
dicesi Marantega.
Salto a piè pari
l'argomento, invero di facile erudizione, delle strenne, già trattato
fino alla sazietà da eruditi antichi e da mitologí moderni.
Dirò bensì d'un uso, molto importante a parer mio, quello
di mangiar fave il giorno dei morti. Già un primo cenno di fave
abbiam veduto di sopra a proposito dei doni ricevuti dai fanciulli. In
Vicari
il giorno della Vecchia si fa ai poveri elemosina specialmente di fave,
come in Piemonte se ne fa di legumi cotti. Dico specialmente, perché
oltre delle fave si dà anche del pane, il quale è in forma
di piccole pope lunghe fino alla metà del tronco, colle mani in
croce sul petto, rappresentanti le anime del purgatorio e perciò
l'armuzzi. (Le famiglie agiate fanno e distribuiscono questi pani il primo
lunedì d'ogni mese, sacro alle Anime sante). Quelle fave i poveri
credendole benedette le seminano tutte fino a una in quei terreni che i
proprietari per averli coltivati e concimati fanno per un anno a favata
affin di prepararli alla seminagione del frumento; ed è superfluo
il dire che, perché benedette, esse daranno fave a bizzeffe. In
Girgenti,
(Agrigento) S. Caterina, Palazzo Adriano fino al secolo passato
(e forse fino al presente) mangiavasi e dispensavasi in luogo di fave coccìa
ai poveri. In Acireale il 2 novembre il basso popolo suol mangiare
a pranzo «
li
favi 'n quasuni », che son
le fave senz'occhio e bollite. Quest'uso vigeva anche al secolo XVIII in
Palermo
(ove oggi invece si mangia focacce e mortella nera), e il
Villabianca
vi trovò materia ad osservazioni non tanto serie da doversi mettere
in luce. Se io non mi fossi proposto di non entrare in lunghi ragionamenti
sulle tradizioni e gli usi che vengo mettendo in evidenza, potrei dire
che secondo gli antichi le fave contenevano le anime dei loro trapassati:
sacre ai morti essendo le fave, e credendosi di vedere nei fiori di esse
certi caratteri neri neri (indizio di lutto) che si attribuivano agli dei
infernali. Potrei dire ancora che presso i Romani le fave avevano il primo
posto nei conviti funebri, e continuazione di siffatto uso esser quello
di Aci, che nelle modificazioni di Vicari e di altri comuni
rappresenta le modificazioni che l'uso gentilesco venne a subire sott'altro
aspetto col cristianesimo. il pranzo o la cena dei morti di
Monte Erice
richiama al convito funebre dei popoli indo europei, esistente già
da tempi antichissimi e che colla nuova religione non solo passò
inalterato, ma anche crebbe a tal punto da doversene interessare la Chiesa.
S. Ambrogío,
infatti, ebbe a proibire banchetti che i cristiani andavano a fare sulle
tombe dei martiri il 2 novembre, cioè il domani in cui i gentili
erano soliti festeggiare tutti gli dei del Panteon. Quindi, nota il Gabriele
Rosa, prevalse l'uso che in luogo recare vettovaglie alle tombe. queste
si distribuiscono ai poveri alle case ricchi. Così si spiega perché
nel giorno dei morti o, come nel Friuli, il giorno d'Ognissanti, ogni famiglia
dispensi al popolo una quantità di pane o di minestra di pasta e
legumi a seconda della propria agiatezza, intendendo suffragare le anime
dei defunti.
|